Monte Calvo

Tra i dolci profili dei monti Simbruini.
I monti Simbruini, così vicini e in fondo quasi sconosciuti, dal latino sub imbribus, “sotto le piogge”, la dice tutta su questa modesta catena montuosa a due passi da Roma; carsica, ricca di doline, ampie piane e inghiottitoi, ricca di corsi d’acqua e per questo rigogliosamente ricca di boschi, e di dolci ambienti. E poi c'è la storia religiosa, San Benedetto, gli eremi, i monasteri, molti ormai ruderi sparsi nel territorio, aleggia la misteriosa storia degli Equi, su questi monti si erano insediati, e ciò che rimane della loro esistenza, ... e poi ci sono i tanti paesi sparsi tra le rughe della montagna, e poi c'è Cervara di Roma, una autentica sorpresa!


Oggi avevamo voglia di camminare, ma senza grossi impegni, avevamo voglia di stare in mezzo alla natura e all’aria aperta ma lontani dai non pochi e nefasti problemi che il ghiaccio ha procurato in questo pazzo inverno; non volevamo passare nemmeno troppo tempo in macchina, la nostra vita è sempre uno spostamento continuo e sotto le feste non siamo stati da meno. La scelta dei Simbruini è venuta fuori così, un po’ per caso e perché raccoglievano molte, quasi tutte, le esigenze che ci eravamo imposti. Ok per i Simbruini, ma dove? I boscosi monti Simbruini, così vicini e in fondo quasi sconosciuti, fino a poco tempo fa ho preferito seguire per molto, troppo tempo, il “mito” dei 2000 metri e per questo angolo di Appennino non c’è stato tempo, a parte il Tarino ed il monte Autore tutto è da da scoprire e conoscere. Prendono il nome dall’etimologia latina sub imbribus, “sotto le piogge”, lo sanno tutti, e la dice tutta su questa modesta catena montuosa a due passi da Roma; carsica, ricca di boschi, ricca di doline e inghiottitoi, ricca di corsi d’acqua e per questo rigogliosamente ricca di boschi, pianori e dolci ambienti. Ed è così che ho aperto la carta delle Edizioni Iter, l’unica che avevo, probabilmente non la migliore, ma è bastata per farmi perdere nella vastità del territorio e nella mia ignoranza. Mi sono lasciato incuriosire dal monte Calvo (1591m.), nella zona Nord dei Simbruini, lontano dal Tarino, meno dal monte Autore, ma di fatto una zona le cui conoscenze erano praticamente zero, era l’occasione per iniziare a perlustrare il territorio a farsi delle idee più precise su queste montagne. Campaegli da cui saremmo partiti era anche facile da raggiungere, il dislivello non sarebbe stato eccessivo, probabilmente non avrebbe superato i 500m., l’anello che pensavo di percorrere avrebbe toccato i 12 chilometri; per oggi era probabilmente quello che ci voleva. Da Aprilia dove abitiamo nulla è davvero vicino, tra Nettunense, raccordo e autostrada, sempre almeno un’ora e mezza di auto ce la dobbiamo sorbire, anche per arrivare sulle montagne più “vicine”; usciamo al casello di Vicovaro Mandela, un pezzo di Tiburtina, un caffè ad Arsoli prima di arrampicarci verso Cervara di Roma e da lì a Campaegli, un bell’altopiano a 1400m. di altezza urbanizzato dalle enormi strutture turistiche tipiche degli anni ’90; tutto sommato non c’è il degrado che ha inghiottito altri comprensori simili, lo immagino in primavera o in estate e mi convinco che è una bella zona. Individuiamo subito la partenza del sentiero 651, c’è corrispondenza tra la mia carta e le belle segnaletiche piantate su una palina; in pratica la prima strada brecciata sulla destra come si arriva a Campaegli. Sono quasi le 9 di mattina quando ci mettiamo in cammino, nonostante l’altezza non eccessiva il terreno è ghiacciato, l’aria punge e confidiamo nel sole che si sta alzando; l’inizio del percorso è distinto da una simultaneità di bandierine, le tradizionali bianco-rosse del CAI e quelle giallo-azzurre di un sentiero archeologico di cui non sapevo l’esistenza e che solo più tardi verrò a conoscere in tutto il suo interesse storico e naturalistico. Presi dalla voglia di scaldarci e dalla maggior frequenza dei segnali del sentiero archeologico perdiamo quasi subito il sentiero per il monte Calvo, altrettanto subito intuiamo che qualcosa non andava, ci sporgiamo su una altura, individuiamo la cima del monte Calvo tra le decine di promontori boscosi più o meno simili e capiamo che dobbiamo tornare indietro; tra andata e ritorno perdiamo trenta minuti, ritorniamo al punto dove ricordavamo l’ultima bandierina bianco-rossa e proprio lì, tra un tornantino stretto che scende a sinistra e praticamente torna indietro e i segnali poco visibili posti su una roccia a terra capiamo l’errore commesso. Siamo di nuovo sul sentiero 651, fino alla vetta basterà seguire le frequenti bandierine per non avere più indugi, dove le distanze tra una segnale e l’altro si allungano è solo perché si tagliano lunghi pianori con delle belle tracce che le attraversano. Virando sulla sinistra, siamo in sostanza a non più di dieci minuti dalla partenza, ci si abbassa dentro una ampia valle ancora bianca della brina e del gelo della mattina, si attraversa un sottile lembo di bosco e ci si ritrova in una radura molto ampia che continua in salita verso Est con una grossa carrareccia che la attraversa; in alto a sinistra si vedono ancora alcuni residence di Campaegli. La strada brecciata sale leggermente e quando svalica una piccola sella si apre su un pianoro ancora più grande, capisco che avremo a che fare con un continuo susseguirsi di piane, disseminate di inghiottitoi, cavità carsiche e radi boschi; la sagoma del monte Calvo si è avvicinata di molto. Sempre ben segnalato il sentiero devia sulla destra seguendo le dorsali che costeggiano la piana, si dipana tra leggeri sali e scendi, tra suggestive e rade faggete e brevi tratti di altrettanto rade pinete. Gli orizzonti fino a questo momento sono limitati ma l’ambiente largo e dalle linee morbide è di quelli che ti restituiscono solo serenità e voglia di camminare. Superato il tratto di pineta costeggiamo una estesa piana, sulla carta prende il nome dalla località di Campaegli; siamo costretti a lambirla ad un certo punto e a percorrere un tratto di carrareccia brecciata che la attraversa (+ 2 ore dalla partenza, ma è da considerare un passo da vera passeggiata), qui il sentiero 651 incrocia il 671a che sale da Subiaco e con questo raggiungeremo la vetta del monte Calvo. Appena centocinquanta metri di carrareccia e si prende una traccia sulla sinistra, contrassegnata puntualmente da bandierine bianco-rosse che prende a salire l’ampia e boscosa dorsale che senza variazioni di pendenza, raggiunge la vetta (+ 40 min.). Lungo la salita, solo per un attimo si scorgono verso Est le cime poco imbiancate del Velino, solo in vetta i panorami si allargano ma rimangono comunque modesti e prevalentemente dominati dalle distese compatte delle calotte boschive. La croce di vetta è davvero singolare per una modesta cima come il monte Calvo, un traliccio altissimo, una decina di metri, insolita croce di Lorena a due bracci; svetta isolata sulla larga e piatta cima. Sopra la cupola dei boschi ad Est sporge appena la doppia cima del Tarino, poco più a Sud si distinguono i profili del Viglio e meno quelli degli Ernici, bisogna spostarsi un po’ verso Nord per scorgere la profonda valle dell’Aniene e le dirimpettaie piccole dorsali dei monti Rufi e Affilani che senza discontinuità segnano l’orizzonte ad Ovest. Il mar Tirreno, anche Roma, visibili nelle giornate terse, sono nascosti dalla coltre scura della caligine probabilmente mista allo smog. A Nord la serie di piane e boschi scendono, si alternano e raggiungono i condomini residenziali di Campaegli. Riprendiamo a scendere sul versante opposto per un chiaro sentiero sempre ben segnalato dalle bandierine CAI e con la stessa pendenza della salita, in 30 min. raggiungiamo il passo delle Pecore, 1500m., un autentico crocevia di sentieri, Campo dell’Osso è ad una manciata di minuti, Livata a 40. Deviamo verso Est, costeggiamo una dolina seguendo la segnaletica e superando una piccola dorsale boscosa scendiamo ed entriamo dentro la grande piana di Campobuffone, una enorme radura che attraversiamo completamente; sfioriamo enormi doline, inghiottitoi, vere profonde cavità nel terreno, di un paio sondo la profondità gettandoci un sasso, non si rivelano poi così profonde ma non è facile sporgersi dentro viste le ripide pareti. Raggiungiamo la carrareccia riportata sulla carta dalla parte opposta della piana e interpretando male il tracciato finiamo per non imboccare il sentiero, continuiamo troppo sulla strada e alla fine siamo costretti a prendere verso Nord in un saliscendi continuo dentro il bosco. Non aver individuato il sentiero lede il nostro orgoglio di camminatori, ma salire e scendere le tante dorsali… attraversare il bosco rado e pulito… ascoltare il fruscio dello spesso manto di foglie cadute che spostiamo ad ogni passo… confondersi nella calotta azzurra del cielo dove i rami disegnano linee precise e confuse… ripagano con intime emozioni. Ci facciamo ammaliare dalle cromie dei colori, dei profili dei tronchi che proiettano ombre, dal grigio delle cortecce, dallo scuro dell’ombra proiettata, dal susseguirsi di marroni, delle foglie secche ora colpite dal sole ora in ombra, qua e là il verde scuso del muschio alla base dei faggi… e il silenzio che ci avvolge, l’immobilità assoluta del tutto; impossibile da raccontare e descrivere tutto questo, può essere solo vissuto, anche i ricordi sono meno. Immersi come siamo nella calotta del bosco per orizzonte avevamo solo il cielo azzurro, non era difficile capire la direzione da seguire ma ogni tanto un occhio al GPS lo buttavo, intercettiamo di nuovo il sentiero che non avevamo individuato poco prima di uscire sulla piana di Campaegli (+ 1 ora dal passo delle Pecore). Ritroviamo le bandierine bianco-rosse ma al limite della piana si perdono di nuovo; la traccia sulla carta segue la carrareccia che si inoltra nella piana fino a compiere una deviazione a destra ad angolo retto; individuo una palina a circa quattrocento metri immaginandola come il punto di svolta, così è. Abbandoniamo la piana verso destra per addentrarci poco più in alto dentro poco pronunciate valli laterali, sono in ombra e nonostante l’ora avanzata alcuni tratti sono ancora ghiacciati. Una vera corsia si snoda sinuosa dentro il bosco, delle paline conficcate nel terreno segnano la via ma è solo la linea logica al centro della via erbosa, sembra di camminare dentro un enorme parco di città. Dopo circa 2 ore dal passo delle Pecore raggiungiamo le prime case di Campaegli. Per i 12 chilometri circa abbiamo impiegato, a passo lento, 5 ore, superato un dislivello di poco inferiore i 500m., si è rivelata una piacevolissima facile “passeggiatona”, eppure non era finita e non perché dovevamo ancora attraversare Campaegli per raggiungere l’auto parcheggiata all’altra estremità dell’agglomerato turistico. La domanda ora era la solita di sempre, dove poter chiudere il rituale terzo tempo: dove pranzare? Non contavo sulle strutture del posto in un periodo fuori stagione ma mi son dovuto ricredere subito, rientrando verso l’auto scorriamo davanti al “Tartufo”, una trattoria sotto un condominio residenziale, guardo attento perché mi sembra di scorgere una luce accesa al suo interno ma ero ancora lontano; confidando in una botta di “culo” mi dirigo diretto verso l’ingresso, davanti alcune auto parcheggiate, indubbiamente buon segno, dalle finestre scorgo tavoli, e gente dentro, la porta è aperta, ci speravo ma ero dubbioso quando ho chiesto se fossimo ancora in tempo a mangiare. Mi viene indicato un tavolo, accanto ad una stufa che ha una fiamma alta mezzo metro, di fianco ad una finestra che da su monte Pelato, avevo ancora lo zaino in spalla! Era come se mi avessero appena fatto un regalo inatteso, il più bello e desiderato. La nostra buona stella oggi aveva ancora sorprese in serbo per noi: Fabio, “l’oste architetto” dalla gentilezza e signorilità sopraffina, con una ospitalità che ha pochi uguali, ci consiglia come se ci conoscesse, mangiamo da Dio rispettando la tradizione rustica del cibo di montagna, antipasti inconsueti, particolari, costruiti e pensati con dedizione, mi viene da dire con amore, sapori ormai introvabili, veri, come se in cucina ci fosse la nonna dei più classici dei racconti. Facile far amicizia con Fabio che scopriamo essere istruttore di sci, amante della montagna che conosce in lungo e in largo, architetto e soprattutto appassionato e cultore della storia del suo territorio. Lo ascoltiamo con curiosità ed avidità, è un fiume in piena, scopriamo che “iegli” etimologicamente è il toponimo locale che significa Equi, si il popolo che negli anni prima di Cristo viveva su questi monti. E ci racconta del sentiero archeologico che avevamo percorso in parte la mattina, un sentiero di cinque chilometri che accompagna attraverso reperti storici di questo antico popolo e ampie vedute panoramiche sulla valle dell’Anio l’attuale Aniene. Sono così tante le informazioni che ci da Fabio, così potente è la sua carica e così aperto il suo sguardo che facilmente mi accende la scintilla, il penultimo degli Equi, come si è scherzosamente definito, mi ha dato un motivo in più approfondire la conoscenza dei Simbruini, ho già iniziato a fare ricerche, mille sono gli spunti su queste montagne per combinare escursionismo, turismo, natura, storia e cultura. Mi sa che io e Marina ci torneremo spesso sui Simbruini, prossima tappa Morra Ferogna, uno sperone calcareo che ho scorto lontana dal sentiero di oggi e che ho scoperto avere una storia suggestiva che dagli Equi ci porta fino ai Celti; storia e leggenda, tanta natura, escursionismo, religione, su questi monti anche San Benedetto dette il via ad un eremitismo che ha lasciato tracce importanti, tutti spunti che ben amalgamati non possono che creare bei momenti. Guarda che cosa è venuto fuori da una escursione che era nata come un piano B di un piano A che non era mai esistito! E non è ancora finita! Con le luci tenui del pomeriggio che si inoltrava verso una placida fine di giornata riprendiamo davvero felici e sereni l’auto, siamo sui tornanti in discesa per tornare a casa ma Marina non è ancora sazia, curiosa di natura, propone una sosta per visitare Cervara di Roma. Ovvio che si, non resisto nemmeno io al fascino di questo paese arroccato su uno sperone a 1000 m. di altezza; ed è stata la degna chiusura di una giornata che apparentemente non poteva darci ancora altro. Solo di scalinate è fatta Cervara, non ci sono strade, di vicoli verticali che si accavallano e incrociano gli uni sigli altri, case appoggiate e sovrastate le une alle altre, affacci mozzafiato e suggestivi sulle profonde valli tutto intorno esaltati dalle tonalità del crepuscolo imminente. Incantevole passeggiare nel mezzo di questo labirinto fatto paese, raggiungere la sommità di quel che resta della sua rocca, salire la scalinata della pace, sovrastare il altezza il campanile della chiesa che è solo a pochi metri da noi, sfilare accanto a delle raffigurazioni, delle poesie incise sulle pareti degli edifici, ceramiche, quadri, di cui i vicoli sono tappezzati. Scorci romantici, che accarezzano l’anima; non vi dico di più, se non la conoscete dovete visitarla, Cervara in inverno non mette insieme più di 130 abitanti ma in estate raggiunge i 3000 ed è piena di vita, di cultura, di storia, di un ristorante che ci hanno descritto essere divinamente rustico. Quando arriviamo al casello dell’autostrada è quasi buio ormai, ogni istante vissuto ci è appiccicato addosso e ci sentiamo leggeri come poche altre volte.